Dicembre 2017: tempo di anniversari per la rivoluzione d'ottobre e così al Mambo di Bologna arriva la mostra REVOLUTIJA. Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky.
La quantità e la qualità delle opere sono di quelle per cui esci con la sensazione che davvero hai impiegato bene il tuo tempo (anche il tuo danaro, soprattutto se hai la card musei). Ma ciò che mi ha lasciato stecchita, più di ogni altra cosa, è l'uso del colore di questi artisti.
Eccomi, in una foto di Laura Figoni, inebetita davanti a una diagonale ascendente, magnifica e progressiva. La palette cromatica sembra saltata fuori da uno di quei fazzolettoni a fiori, dove le tinte calde prevalgono sempre, come se i rivoluzionari avessero poi adottato il rosso solo perché esistevano già le matrioske.
Ecco, sulla pista dello scialle a fiori mi ci ha messo proprio Chagall, che lo depone ai piedi dei due amanti, come si trattasse di un picnic su un tappeto volante.
Sì, è vero: Kazimir Malevich, con le sue opere ti trasporta in un'altra dimensione e hai quasi la sensazione di guardare una mostra nella mostra. Ma anche gli altri autori ti si imprimono nella mente per le loro cromie, i linguaggi tutti diversi.
Wassily Kandinsky, Marc Chagall, Aleksandr Rodčenko non ti appaiono meno grandi, ma capisci meglio di cosa abbiano nutrito la loro immaginazione. Già nel 1912, ad esempio, Larionov dipingeva una Venere che sembra essere stata concepita, 70 anni più tardi, da un graffitista americano. Ho fatto fatica a staccarmi da quella tela a fondo giallo, con la dea in ittero, le treccine al vento e una colomba alla diavola che la assilla con la posta in entrata.
Poi le atmosfere mutano, dalla spensieratezza dei foulard a fiori, si passa ad una realtà descritta da texture che colano, scompongono e feriscono. Ti accorgi anche solo da questo che qualcosa non è andato come previsto, nei primi decenni dopo la rivoluzione.
Dicevo di Kazimir Malevich. Nel 1923 lui spara il suo "Cerchio nero" che è un punto a capo dopo il quale risulta difficile immaginare ancora qualcosa. Mentre lo guardi, lì in alto a destra nella sua tela, senti un po' dello stordimento che devono avere provato i contemporanei di Malevich nell'osservarlo. Chissà se anche Kazimiro si è chiesto "... e adesso come si prosegue?". Fatto sta che poi recupererò il colore e la figura, ma il nero (e il rosso) sarebbero sempre rimasti imprescindibili nella sua pittura. La sala dove sono esposti i suoi costumi per un'opera teatrale, vale da sola una visita (però, se ci vai, prova a chiederti come potessero muoversi, gli attori, scafandrati in quelle splendide corazze avant-garde).
Tutto questo entra anche nella grafica, però nella mostra ne trovi solo un piccolo accenno in un dipinto che è servito per comunicare un evento di quelli tipicamente rivoluzionari, anche se il protagonista sembra uscito da Gotham City. Arancio, rosso e nero, progressivi pure loro, saettanti nella composizione. Il lettering extra-bold con le ombre e l'outline, tutto disegnato a mano.
Uscita da lì, ho visto il mondo attraverso un paio di lenti scarlatte ancora fino al tramonto. Bologna era davvero la rossa.
(Laura ed io, matrioske, all'uscita dalla mostra)